Due anni e mezzo fa in questa stessa aula, chiudevamo il congresso della Camera del Lavoro di Savona. Un congresso che definiva obiettivi molto importanti, tanto più a fronte di un quadro politico e sociale molto grave. Allora abbiamo sostenuto la necessità di riprogettare il paese; ci siamo posti un obiettivo tanto alto quanto obbligato in un quadro politico mondiale in continuo movimento, un progetto capace di proporre un’inversione di rotta programmatica e culturale nell’elaborazione di un’idea di Paese che punti ad essere competitivo in un mondo in cui sono cambiate le modalità di consumo e di produzione, ma anche le modalità di relazione tra nazioni e culture differenti. Abbiamo attraversato una lunga stagione nella quale sembrava che l’attacco ai diritti del lavoro e lo smantellamento dello stato sociale fosse l’unica ricetta per continuare a competere nel mondo globale; un’epoca nella quale si è affermata un’idea del mondo basata sull’esaltazione della libera impresa come mezzo per l’affermazione di un individuo sull’altro. In nome di quell’idea sono stati stravolti tutti i meccanismi ispirati alla solidarietà nelle politiche fiscali e sociali e l’evasione fiscale si è trasformata da reato in virtù, un’epoca in cui i furbetti erano i modelli e i lavoratori onesti i fessi. A quell’idea di paese noi opponevamo il nostro programma, una proposta che voleva portare al centro dell’azione di Governo la centralità del valore del lavoro opposta alla centralità del valore del mercato. Con quella proposta abbiamo rigettato un’idea ampiamente condivisa che vede nel lavoro un ostacolo alla crescita. Noi abbiamo sostenuto il contrario affermando invece che la qualità del lavoro è l’elemento attraverso il quale si misura la capacità di competere di un paese. Per questa ragione abbiamo evidenziato la necessità di investire su uno stato sociale inclusivo, di estendere i diritti e le tutele, di puntare sulla formazione, sulla ricerca e sull’innovazione. Tuttavia, le elezioni del 2006 ci hanno consegnato una maggioranza di Governo estremamente debole. Anzi, possiamo tranquillamente affermare che noi abbiamo chiesto di avviare una stagione di riforme ad un Governo che in realtà, su molte questioni, a partire da quelle del welfare, non aveva nemmeno una maggioranza. Eppure in questi anni siamo riusciti a riavviare il dialogo sociale negatoci nei 5 anni precedenti e siamo riusciti ad ottenere alcuni risultati che pur non raggiungendo nessuno degli obiettivi posti dal congresso, vanno nella direzione giusta, a partire dalle politiche di risanamento attraverso le azioni di lotta all’evasione fiscale, fino ad arrivare al protocollo del 23 luglio. Proprio l’esperienza delle assemblee per il referendum sul protocollo del 23 luglio ci ha confermato ciò che da tempo tutti gli indicatori ci dicevano, sulla perdita di valore di salari e pensioni e sulla necessità di avviare immediatamente politiche di redistribuzione del reddito. In quelle assemblee abbiamo avuto la rappresentazione di un paese sfiduciato e a tratti smarrito e l’espressione di disagio attraversava anche la grande maggioranza dei lavoratori che si erano espressi favorevolmente sul protocollo del 23 luglio perché vi individuavano una prima importante tappa nel cammino verso la definizione di una nuova rete di diritti e tutele. Per questa ragione, con la piattaforma di Milano abbiamo chiesto al Governo di assumere una priorità, quella del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni attraverso l’avvio di un’azione di recupero sul medio periodo che agisse simultaneamente sulla leva fiscale e sul controllo di prezzi e tariffe al fine di accorciare le distanze tra costo della vita e retribuzioni. All’azione sul medio periodo avevamo poi chiesto di affiancare anche interventi immediati perché il rilancio dei consumi interni e l’avvio di reali politiche redistributive devono essere priorità del Paese e non di questo o quel Governo. Avevamo chiesto al Governo di esprimersi con nettezza e con una sola voce sugli obiettivi proposti prima ancora che sui percorsi. Consideravamo talmente urgenti le nostre richieste che avevamo già fissato una giornata di mobilitazione per il 15 febbraio. Poi il Governo è caduto e lo sfondo della campagna elettorale ci consegna un Paese che conferma l’attualità degli obiettivi fissati con la conclusione unitaria del nostro ultimo congresso il cui valore è stato riconfermato dal direttivo nazionale dello scorso gennaio. Il 15 febbraio abbiamo mantenuto una qualche forma di mobilitazione e abbiamo avviato una raccolta di firme perché la crisi parlamentare ed istituzionale non può impedire l’esigibilità di interventi che ogni giorno che passa assumono sempre più il carattere dell’urgenza. Sono partito dal documento congressuale e dalla sua attualità rispetto alla situazione che stiamo vivendo, perché credo che sia necessario non slegare la nostra conferenza d’organizzazione dal quadro politico. Sarebbe difficile fermarsi a parlare di noi stessi ignorando ciò che sta accadendo intorno a noi, perché rischieremmo di discutere di un’idea di CGIL che non trova riscontro nella società reale. Come siamo fatti noi? Come è fatto il mondo che vogliamo rappresentare? Sono queste le domande a cui dobbiamo dare risposta per costruire un’organizzazione capace di rafforzare gli obiettivi di quel congresso nell’unica forma possibile per il nostro modo di essere sindacato: l’estensione della rappresentanza e della rappresentatività.
In questa conferenza d’organizzazione (non solo nel documento, ma anche negli attivi delle categorie) abbiamo sentito ripetere alcune parole importanti (confederalità, territorio, autonomia, pluralismo, democrazia) che rappresentano altrettanti valori la cui efficacia si misura in relazione al quadro sociale e politico all’interno del quale essi si esercitano.
La discussione sul tema della confederalità ad esempio, è indubbiamente condizionata dalla discussione che abbiamo fatto al nostro interno in questi mesi, ma non può prescindere da una valutazione sul ruolo che il Sindacato confederale può avere oggi nel contesto in cui viviamo. Il quadro di sfiducia diffusa nei confronti della politica laddove non esiste tutela dell’interesse generale, spinge a nuove forme di corporativismo mirate al primato di una determinata categoria sociale sull’altra. Da questo schema finiscono per essere esclusi e penalizzati lavoratori e pensionati che, in qualità di parti contraenti deboli, vedono affermati i loro diritti solamente in un sistema che punta alla difesa degli interessi generali attraverso una forte rete di tutele e di diritti. Se diminuiscono le protezioni sociali e crescono le diseguaglianze, il rischio è quello della proliferazione di conflitti tra le stesse categorie lavorative: solo per citare un esempio, la trattativa che ha portato al protocollo del 23 luglio è riuscita a trovare un equilibrio che ha scongiurato il pericolo di conflitto generazionale tra lavoratori giovani e anziani; ma per anticipare un tema legato al territorio, nella contrattazione di secondo livello possiamo citare i tentativi delle aziende di mettere in conflitto le richieste riguardanti lavoratori stabili e lavoratori precari. Ora, se questo è il contesto, confermare il ruolo della CGIL quale sindacato generale che organizza lavoratori e pensionati e ne rappresenta gli interessi collettivi promuovendone la solidarietà reciproca è un puro esercizio retorico o deve essere riattualizzato come principio ispiratore della nostra organizzazione? E se vale questa premessa, il problema principale è discutere su come ogni pezzo che concorre a costituire la CGIL può rivendicare nuovi spazi di autonomia o è prioritario discutere su come ogni pezzo della CGIL concorre al rafforzamento del ruolo confederale dell’Organizzazione?
Essere Sindacato confederale significa partecipare alla costruzione della linea politica attraverso la libera espressione dei pluralismi che hanno cittadinanza dentro la nostra Organizzazione. A questo proposito occorre dire che i meccanismi di partecipazione democratica e le regole per la garanzia dei pluralismi nella CGIL sono figli di 100 anni di storia e di esperienza e garantiscono in maniera adeguata il rapporto dialettico tra le aree programmatiche che vivono al nostro interno e che assieme concorrono alla costruzione di una linea politica. Per questa ragione è necessario rispettare quelle regole e la natura politica che esse rappresentano, perché può esistere un rapporto dialettico tra individui o componenti dentro la CGIL ma non può esistere un rapporto dialettico tra queste e la CGIL o tra le Categorie e la CGIL perché le Categorie e le aree programmatiche sono esse stesse la CGIL. Sui temi confederali quindi, come il protocollo del 23 luglio e la piattaforma sui salari, la discussione sul modello contrattuale, non può esistere un primato delle Categorie sulla Confederazione. I Comitati direttivi confederali di tutti i livelli sono il luogo dove già oggi trovano cittadinanza i pluralismi, nel quale avviene il confronto e al quale è affidata la titolarità delle decisioni attraverso le procedure democratiche definite dallo Statuto. La CGIL non è medium o un contenitore, è un soggetto politico e in quanto tale deve veicolare un messaggio chiaro ed univoco al fine di orientare il mondo che vuole rappresentare ed organizzarlo per aumentare il proprio potere rivendicativo. Il merito, l’analisi e le proposte contenute nel programma della CGIL sono gli strumenti che regolano il nostro agire e garantiscono la nostra autonomia. Credo che non sia possibile declinare il tema dell’autonomia slegandolo dal merito. Ma soprattutto, dobbiamo liberarci dall’intima convinzione che esista tra noi qualcuno più autonomo che in virtù di questo status possa richiamare all’ordine chi autonomo non è. Faccio questa osservazione perché sento spesso questo accento negli interventi di compagne e compagni che affrontano la questione. Ovviamente non intendo dire in questo modo che siamo tutti colpevoli quindi tutti assolti. Intendo dire che la capacità di autonomia non si misura con il grado di appartenenza del tal compagno a questa o quell’idea politica ma al contributo che ognuno di noi da all’Organizzazione nell’elaborazione di una propria strategia politica, di un proprio programma e alla capacità che ognuno di noi ha di agire nel merito, in coerenza con gli obiettivi definiti da quel programma. Tutto questo nella consapevolezza che il rapporto della CGIL nei confronti della politica deve essere autonomo sì, ma non certo agnostico. La CGIL ha bisogno di un interlocutore politico forte per dare efficacia alle proprie rivendicazioni e ha bisogno di poter valutare il Governo nel merito dei singoli atti compiuti. Quindi essere autonomi non può significare rinunciare al giudizio, né il giudizio può essere utilizzato strumentalmente e indipendentemente dal merito per connotare l’autonomia del Sindacato.
Se il tema è quello delle modalità di rafforzamento del ruolo confederale, la questione della partecipazione democratica dei lavoratori ne rappresenta una condizione imprescindibile. Il documento nazionale richiama la necessità di regole confederali unitarie che regolano le modalità di partecipazione al voto già espressa dal documento congressuale. Abbiamo convenuto tutti come il referendum sul protocollo del 23 luglio sia stata una grande prova di democrazia. Sulla scia di quell’esempio e all’avvio della discussione sul modello contrattuale dobbiamo riaprire il confronto con CISL e UIL per condividere delle regole che definiscano le modalità per consentire a tutti i lavoratori e pensionati non solo di esprimersi sugli accordi, ma di partecipare fin dall’inizio alla costruzione delle piattaforme confederali. In questo senso è necessario definire come si coniugano nel rapporto unitario le regole che già definiscono il rapporto tra democrazia di mandato e democrazia d’organizzazione all’interno della CGIL.
La nostra conferenza d’organizzazione parte dall’assunto della tesi 10 del nostro congresso che individuava il territorio quale luogo della ricomposizione dei diritti di cittadinanza. Perché in piena globalizzazione, un’organizzazione che riconosce l’esigenza di costruire il sindacato europeo e mondiale deve ripartire dal territorio? Perché un sindacato che si pone l’obiettivo di allargare la propria sfera rappresentativa deve ripartire dai luoghi dove si esercita la rappresentanza. Territorio significa luogo di lavoro: quelli in cui esistiamo già ma anche quelli dove non siamo. Territorio significa condizioni di lavoro: quelle dei lavoratori dipendenti delle grandi aziende, delle piccole, dei lavoratori precari. Territorio significa condizioni sociali: quelle dei lavoratori dentro e fuori dai posti di lavoro quelle delle donne, dei migranti, dei giovani, dei pensionati. Ripartire dal territorio significa cercare di organizzare lavoratori che non rappresentiamo, significa entrare nelle aziende dove oggi non siamo e dove servirebbe la presenza del sindacato; significa estendere la contrattazione a chi non ce l’ha e migliorarla a chi ce l’ha; significa creare le condizioni per avvicinare all’attività sindacale quelle figure che oggi compongono in maniera preponderante il mondo del lavoro (dalle donne ai migranti) e quindi, devono avere un’adeguata rappresentanza nei nostri organismi direttivi. Il rafforzamento della CGIL sul territorio però non sarebbe tale se avvenisse a fronte di un indebolimento delle strutture regionali e nazionali.
Investire sul territorio significa trasferire qui più risorse economiche. Noi che operiamo nella Camera del Lavoro di Savona e quindi sul territorio non siamo certo contrari all’idea di avere più risorse. Ma siccome noi crediamo al ruolo del sindacato generale e teniamo alla CGIL, non abbiamo solo l’interesse a chiedere più soldi, abbiamo anche il dovere di capire da dove quei soldi vengano ed eventualmente a chi vengano tolti. Il documento congressuale individuava la necessità di rafforzare il doppio livello contrattuale, estendendo la contrattazione di secondo livello ma confermando il contratto collettivo nazionale quale strumento universale per garantire pari diritti a tutti i lavoratori. Un maggior decentramento di risorse è essenziale per estendere la contrattazione territoriale. Ma questo non può avvenire a discapito della contrattazione nazionale che anzi, tuttora rimane il mezzo principale per estendere la contrattazione di secondo livello perché può individuare strumenti utili ad entrare nei posti dove non siamo. Penso ad esempio all’armonizzazione dei contratti dell’industria e delle aziende artigiane. In questo senso occorre indubbiamente ridefinire in maniera chiara e semplice i criteri sui quali si basa il sistema di canalizzazione delle quote associative. E’ necessario superare quelle complicazioni e quei paradossi per cui esistono anche all’interno della stessa categoria modalità di redistribuzione differenti a seconda dei settori rappresentati e spesso, è molto complicato capire il criterio con il quale viene definita la quota spettante. Tuttavia bisogna riuscire nella difficile impresa di rafforzare la CGIL nei territori senza indebolire il ruolo contrattuale del Sindacato nazionale. A questo proposito, la generalizzazione della quota dell’1% di contribuzione per chi si iscrive alla CGIL è un vero e proprio atto di giustizia prima che una modalità per aumentare le entrate. Il principio di solidarietà dei lavoratori e di mutuo concorso al sostegno del Sindacato è maggiormente valido nel momento in cui la quota associativa è uguale per tutti e bisogna che l’organizzazione lavori perché la parificazione della trattenuta sindacale si realizzi nei tempi più rapidi.
Ma la discussione non può e non deve riguardare soltanto la redistribuzione delle risorse.
Il punto è come anche le Camere del Lavoro possano aggiornare il loro modo di essere, possano attrezzarsi per adeguarsi al pezzo di società che vogliono rappresentare. Qui sta uno degli elementi chiave del nostro dibattito. Con il nostro Congresso abbiamo confermato che la funzione della CGIL è e rimane quella della contrattazione di nuovi diritti. Il punto non è quindi rimettere in discussione la nostra ragione sociale quanto quello di sperimentare modalità organizzative nuove per estendere la contrattazione. Oggi noi abbiamo sicuramente almeno 3 esigenze: migliorare la contrattazione a chi ce l’ha già; estendere la contrattazione a chi non ce l’ha; dare valore alla contrattazione sociale. Tutto questo significa innanzitutto investire nelle RSU che devono assumere il ruolo di rappresentanti diretti della confederalità del Sindacato, rivendicando appieno le funzioni a loro assegnate dal CCNL. Esiste una titolarità delle RSU che va oltre la contrattazione del premio di risultato. Bisogna che i temi dell’ambiente, della salute, della sicurezza come quelli relativi all’organizzazione del lavoro diventino oggetto della contrattazione aziendale e per questo è necessario individuare e fornire alle RSU gli strumenti anche formativi per rivendicare e sostenere questo ruolo. A questo scopo, è utile definire degli obiettivi confederali da rivendicare nei confronti di tutte le Associazioni di categoria per agevolare la contrattazione nei posti di lavoro a partire dalla richiesta di finanziamento della formazione dei lavoratori attraverso la destinazione del contributo dello 0,30% ai fondi interprofessionali fino ad arrivare ad accordi quadro in materia come la sicurezza e la gestione degli appalti.
Poi ci sono le imprese, i luoghi di lavoro dove non esiste la RSU. Sono le imprese sotto i 15 dipendenti (che per la maggior parte nella nostra provincia sono aziende sotto i 5 dipendenti). Spesso sono imprese che non conosciamo, qualche volta sono imprese che conosciamo perché operano all’interno di un luogo di lavoro più grande e dove esiste una rappresentanza ma che sono escluse dalla contrattazione. Portare la contrattazione a questi lavoratori è indubbiamente più difficile, tuttavia è possibile estendere la nostra rappresentanza se decidiamo di uscire per andare a cercare questi lavoratori, se proviamo a coinvolgere associazioni di categoria che spesso a livello territoriale tendono ad esercitare maggiormente funzioni di servizio che contrattuali (a Savona mi viene in mente la quasi totale assenza di confronto con CNA e Confartigianato che rinunciano a svolgere qualunque ruolo politico legato alle politiche di sviluppo locale e di programmazione del territorio), se coinvolgiamo le Istituzioni su temi sensibili e costruiamo percorsi che consentano di arrivare a svolgere contrattazione per sito, per area o di filiera. E’ quello che stiamo provando a fare sul terreno della sicurezza alla luce dei due tragici incidenti mortali che sono avvenuti nel savonese negli ultimi mesi. Siamo riusciti ad ottenere l’apertura di un tavolo con le istituzioni presso la Prefettura e abbiamo chiesto loro proprio quanto sostenevo prima: di convocare tutte le Associazioni datoriali per definire un accordo quadro sulla sicurezza che si ponga l’obiettivo di monitorare anche i luoghi di lavoro meno strutturati verificando la possibilità di istituire i RLS di sito, peraltro previsti dalla normativa, laddove è possibile. Abbiamo ricevuto un impegno figlio dell’onda emotiva del momento, poi tutto è rientrato nella normalità e l’Unione Industriali di Savona ha ripreso a lamentarsi pubblicamente sui giornali di come l’assenteismo sia il primo nemico della produttività. Per questo occorre eleggere gli RLS dove non ci sono, garantire loro gli adeguati percorsi formativi, promuovere gli investimenti in prevenzione delle imprese con misure da estendere anche ai lavoratori degli appalti (non dimentichiamoci a questo proposito che le due vittime savonesi erano dipendenti di imprese che lavoravano in appalto presso aziende medie della nostra provincia).
Infine estendere la contrattazione oltre i luoghi di lavoro significa dare valore alla contrattazione sociale. Per raggiungere questi obiettivi è necessario intervenire non solo sul nostro modello organizzativo, ma addirittura sul modello culturale che regola i rapporti con le nostre controparti e al nostro interno. Intanto dare valore alla contrattazione territoriale significa far capire alle Amministrazioni il concetto stesso di contrattazione. Il tema delle politiche fiscali e sociali degli EE.LL. non può più risolversi in momenti di informazione che danno luogo a verbali laddove esiste una condivisione delle scelte o viceversa si limitano alla presa d’atto laddove si segnano delle distanze nelle posizioni. Noi vogliamo una contrattazione vera che parta dal confronto di esigenze di rappresentanza diverse che cercano una sintesi nell’individuazione di obiettivi comuni e condivisi. Ma per fare questo dobbiamo essere consapevoli che anche noi dobbiamo attrezzarci meglio. Intanto è necessario, da parte nostra, costruire delle piattaforme unitarie con CISL e UIL sulle quali confrontarsi; poi dovremmo condividere quelle piattaforme con l’AUSER, con il SUNIA, con la Federconsumatori, ma anche con le Categorie, insomma bisogna che la contrattazione territoriale assuma una connotazione più Confederale e non sia solamente affidata al lavoro importantissimo che le compagne e i compagni dello SPI stanno continuando a fare. Non solo, se apriamo una contrattazione vera, dovremo essere in grado di mettere in campo delle iniziative di mobilitazione quando l’andamento della trattativa o addirittura l’assenza di una trattativa lo richiedono. Quindi per fare questo dovremo poter impostare il confronto coinvolgendo fin dalla costruzione della piattaforma pensionati e lavoratori. In questi 2 mesi abbiamo già incontrato parecchie Amministrazioni, Ileana ha preparato una bozza di piattaforma da condividere con CISL e UIL e al nostro interno. Tuttavia è evidente che dobbiamo costruire nel tempo una modalità di lavoro nuovo, perché non possiamo pensare che siano le Amministrazioni a dare valore alla contrattazione territoriale semplicemente perché glielo chiediamo; sta a noi, come sempre, mettere le nostre parti nelle condizioni di dover contrattare con noi.
In tutto questo poi, non deve assumere un ruolo secondario il nostro sistema dei servizi. Per parlarne credo che si debba liberare innanzitutto il campo da quello che nel tempo si sta trasformando da dibattito serio in una specie di vero e proprio “complesso di colpa” collettivo dal quale rischiamo di farci condizionare. Mi riferisco alla già citata e annosa disputa tra due idee di sindacato: quella di sindacato dei servizi contrapposta a quella di sindacato generale che fa della contrattazione l’elemento principale della rappresentanza. Ho usato l’espressione “complesso di colpa” non per snobbare la questione ma proprio perché spesso noi affrontiamo questo tema in maniera autoreferenziale e dogmatica a prescindere da come la società nella quale operiamo stia cambiando. Ho già detto prima come la CGIL abbia da tempo imboccato una strada precisa, quella del Sindacato che deve fare contrattazione rinunciando per questo a svolgere attività che possono costituire un ostacolo o un elemento di ricatto nel rapporto con le controparti. In virtù di questa scelta, la CGIL non ha, ad esempio, una propria agenzia interinale né partecipa ad attività di incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Quindi il tema non è: quale alternativa tra servizi e contrattazione. Il tema è: come può una migliore organizzazione del sistema dei servizi fungere da veicolo all’allargamento della rappresentanza e quindi della contrattazione. Anzi, poiché spesso i lavoratori e i pensionati ci giudicano per la qualità dei servizi e in virtù di quel giudizio operano delle scelte (ci tornerò dopo), io credo che, senza complessi, la CGIL debba sempre porsi l’obiettivo di offrire servizi più efficienti e migliori delle altre organizzazioni sindacali.
Oggi sono sempre di più le lavoratrici e i lavoratori che accedono ai servizi della CGIL senza essere organizzati in una categoria. Tutti questi sono lavoratori che non hanno il Sindacato nella propria azienda ma riconoscono nel Sindacato un punto di riferimento al quale rivolgersi. Sempre più quindi, il nostro sistema dei servizi diventa un mezzo per intercettare nuovi lavoratori e pensionati. Per queste ragioni è necessario proseguire nel percorso indicato dal documento della conferenza d’organizzazione che mira ad una visione comune del ruolo dei servizi, alla realizzazione di un sistema che li metta in relazione tra loro oltre che con le categorie e la confederazione. Ho parlato di prosecuzione di un percorso, perché la Camera del Lavoro di Savona sta operando in questo senso da almeno 2 anni. Con questi obiettivi infatti, abbiamo scelto di accentrare in un’unica sede, a Savona, il patronato INCA, il CAAF, l’ufficio vertenze, le categorie e la confederazione. Da più di un anno abbiamo puntato su modelli formativi e di riqualificazione degli operatori con l’obiettivo di allargarne le conoscenze e le competenze puntando su quella che nel nostro provincialismo chiamavamo interscambiabilità e poi leggendo il documento abbiamo scoperto che si chiamava professionalità verticale e orizzontale. Lo scopo dell’operazione è mirato a migliorare l’organizzazione dei servizi e a renderli più efficienti aumentando al tempo stesso il senso di appartenenza e la coscienza del ruolo complesso che oggi anche gli operatori degli sportelli sono costretti a svolgere. Per coordinare le varie attività e dare risposte immediate a lavoratori e pensionati abbiamo poi deciso di istituire uno sportello d’accoglienza presso la CdL di Savona che accorpa le funzioni fondamentali con operatori capaci di valutare il bisogno dell’utente, indirizzarlo, fornirgli servizi di immediata erogazione. Infine abbiamo prima rinnovato le sedi e poi replicato lo stesso modello a Cairo, recentemente ad Albenga e stiamo avviando Varazze. Insomma, un investimento importante in termini di risorse, ma anche di intervento su un modello culturale nel quale il ruolo dei servizi è sempre stato parallelo e non complementare all’attività confederale.
Ora però, si tratta di proseguire questo percorso in nuove direzioni:
Formazione. Il documento della conferenza indica un modello formativo finalizzato a migliorare le competenze specifiche degli operatori dei servizi, migliorando al tempo stesso una maggiore consapevolezza del luogo in cui si opera. Per semplificare, oggi l’operatore dei servizi deve essere anch’egli sindacalista, deve saper vivere l’organizzazione per essere capace di andare oltre la semplice soddisfazione della richiesta dell’utente. Anche l’apparato politico deve avere coscienza di come funzionano i servizi e chi fa che cosa nei servizi. Per sviluppare questa consapevolezza dobbiamo immaginare momenti formativi che coinvolgano tanto l’apparato tecnico quanto l’apparato politico. In questo senso dobbiamo sfruttare l’esperienza dei responsabili delle Leghe dello Spi, che spesso si trovano a svolgere un ruolo di servizio ma che hanno un’esperienza che in molti casi è data dall’aver ricoperto e ricoprire tuttora incarichi politici all’interno della CGIL.
In secondo luogo, dobbiamo dotarci di strumenti di analisi che ci permettano di valutare oggettivamente l’attività dei nostri sportelli (non mi riferisco solo al sistema dei servizi, ma anche alle leghe dello SPI e agli uffici di categoria) per promuovere scelte strategiche che consentano all’organizzazione di crescere sulla base di una maggiore conoscenza delle esigenze del territorio. Per valutare come adeguare le nostre strutture ai bisogni delle persone non possiamo fermarci al numero di nuove tessere, alle pratiche fatte o al punteggio totalizzato da un patronato. Dobbiamo partire da un’analisi delle richieste delle persone che si avvicinano al nostro Sindacato. Perché si rivolgono a noi? Cosa chiedono? Quanti sono iscritti e quanti no? A quale realtà sociale e territoriale appartengono? Quanto più saranno verificabili anche statisticamente le risposte a queste domande tanto più saremo in grado di effettuare scelte capaci di rispondere alle esigenze reali a partire dall’utilizzo della rete delle sedi dello leghe dello SPI per potenziare e decentrare la nostra presenza.
Infine, dobbiamo investire nel rapporto tra i servizi e le categorie; per fare questo dobbiamo da un lato coordinare in maniera più efficiente la presenza dei servizi nelle aziende sindacalizzate e dall’altro trovare la maniera di trasferire alle categorie i lavoratori che intercettiamo agli sportelli. E’ qui che può acquisire importanza il ruolo del delegato sociale. Oggi siamo in grado di fornire servizi efficienti a chiunque si rivolga a noi, ora dobbiamo fare il passo successivo, dobbiamo svolgere un ruolo attivo sul territorio attraverso la promozione di vere e proprie campagne che ci permettano di allargare la nostra sfera di intervento e ci permettano di raggiungere nuovi posti di lavoro e nuovi lavoratori che poi le categorie avranno il compito di organizzare e rappresentare. In questo senso il luogo di lavoro è l'ambito che consente di riconoscere e far emergere domande e bisogni da un lato connessi alla vita concreta dei lavoratori e alle loro difficoltà, dall'altro come contesto ove si riflettono, e spesso espandono, disagi e problematicità al di fuori dell’azienda.
Dentro il luogo di lavoro, il delegato sociale è quindi il soggetto attraverso il quale realizzare azioni concrete che favoriscano l'instaurarsi in azienda di un clima organizzativo positivo e che portino il sindacato a promuovere nuovi strumenti di garanzia e tutela sia per le politiche sociali che per la contrattazione.
Dentro la confederazione, il delegato sociale è il soggetto che funge da collegamento tra i servizi e le categorie allo scopo di estendere le forme di tutela individuale ma anche per concorrere a costruire nuovi strumenti di rappresentanza collettiva.
Estensione della contrattazione, allargamento della rappresentanza, miglioramento dei servizi, delegato sociale. Non possiamo limitarci ad individuare queste priorità, dobbiamo chiederci come possiamo organizzarci per realizzarle.
La flessibilità dei gruppi dirigenti è una delle caratteristiche delle Camere del Lavoro medio-piccole che ha elevato il livello di competenza di ogni singolo Dirigente contribuendo ad affermare una diffusa consapevolezza e conoscenza della complessità della nostra Organizzazione e delle relazioni che essa ha con il territorio. Da questo punto di vista, la regola degli 8 anni si è rivelata un ottimo strumento per costringere l’organizzazione ad individuare e valorizzare risorse nuove e in qualche caso, dare nuove motivazioni a dirigenti più esperti. L’applicazione puntuale della regola ha contribuito ha caratterizzare maggiormente le CdLt per la loro natura flessibile e confederale. Tali caratteristiche hanno consentito nella storia recente della CdL di Savona di gestire importanti riorganizzazioni del gruppo dirigente senza alcuna ripercussione sul rapporto con gli iscritti. Tuttavia, fino ad oggi l’esercizio di queste forme di flessibilità hanno garantito l’esercizio delle forme tradizionali di rappresentanza della nostra Organizzazione. Ora, le nuove dinamiche economiche, sociali ed ambientali impongono anche alle Camere del Lavoro territoriali di riorganizzarsi. La normale attitudine alla flessibilità dei nuovi dirigenti è indubbiamente una modalità da continuare a valorizzare. Esistono settori che già da tempo abbiamo definito strategici nelle nostre analisi politiche, settori per i quali anche a livello locale vengono assegnate delle deleghe proprio nell’ottica di quella flessibilità tra ruolo esercitato all’interno di una Categoria e ruolo esercitato nella Confederazione. Tuttavia, nella realtà dei fatti spesso assistiamo all’impossibilità di esercitare appieno tale delega per ragioni di priorità dettate dalla necessità appunto, di garantire le forme tradizionali di rappresentanza. Tale stato di cose impedisce di lavorare per l’inclusione di alcune categorie sociali (gli immigrati, le nuove identità di lavoro, le donne) così come di promuovere politiche attive ed efficaci in materia di sicurezza e ambiente del lavoro, formazione, politiche di genere. Per queste ragioni non si può più rinunciare a specializzare anche a livello territoriale dei quadri sindacali che sappiano diventare punto di riferimento confederale su materie specifiche e interagire con i riferimenti che già risiedono nelle istanze congressuali regionali e nazionali. Il punto è capire come, al di là dell’investimento di nuove risorse, una CdLt possa trovare gli spazi per investire su simili figure. In questi anni la CGIL ha completato alcuni processi complessi di accorpamento. L’avvio della discussione sul modello contrattuale e la semplificazione dell’attuale sistema attraverso l’unificazione dei contratti potrà aprire la strada a nuove fusioni tra categorie. Credo che questo sia un percorso difficile ma obbligato che dovremo sostenere. Dico difficile perché alla fine la vita interna della CGIL è speculare alle dinamiche della società e non siamo impermeabili al rischio di cadere in tentazioni corporativiste, cosa che avviene regolarmente quando si tenta di accorpare due categorie. Eppure questa è una strada possibile che potrebbe consentirci di far fronte ad un’organizzazione delle categorie che a livello territoriale è spesso disomogenea. Infatti, sebbene riconfermare la regola degli 8 anni a tutti i livelli sia necessario, quando questo avviene in una categoria che rappresenta pochi iscritti il rischio è quello di dover spostare risorse da settori che avrebbero un maggiore bisogno di investimenti al solo fine di rispettare lo statuto. Nelle Camere del Lavoro sono già state sperimentate nuove forme organizzative che, nel rispetto delle regole statutarie, prevedano la possibilità di federare categorie affini o di individuare settori transcategoriali riconducibili ad un sito o ad una filiera (ad esempio gli appalti o la cooperazione) da affidare ad un unico responsabile. Infine, la regola degli 8 anni impone di investire anche su forme di formazione continua destinate ai dirigenti che cambiano incarico per aggiornare le loro conoscenze e accompagnarli nel loro nuovo ruolo.
Fino ad ora abbiamo parlato di formazione per le RSU per i RLS, per nuovi quadri e per la riqualificazione dei dirigenti sindacali oltre che per gli operatori dei servizi. Una formazione quindi, che deve essere funzionale al raggiungimento di obiettivi diversi, spesso complementari ma comunque riconducibili a moduli che devono essere indipendenti l’uno dall’altro. Gli standard formativi offerti dalle strutture nazionali e regionali sono utili per l’acquisizione di competenze di base generali. Tuttavia quel livello di formazione da solo, non è più sufficiente in assenza di modalità di aggiornamento più rispondenti alle esigenze del momento in cui si collocano e del contesto al quale si riferiscono. Quindi anche nelle CdL la formazione deve passare dall’essere sporadica all’essere organica, deve essere programmata e porsi degli scopi precisi a partire da quello dell’inclusione di nuove categorie sociali come i giovani.
Un sindacalista comincia a formarsi attraverso l’esperienza lavorativa svolgendo attività sindacale all’interno del proprio luogo di lavoro. E una CGIL che guardi al futuro deve poter rinnovare il proprio quadro dirigente puntando sui giovani sì, ma andandoli ad intercettare prima di tutto nei luoghi di lavoro. Non si tratta né di aprire la caccia al giovane, né di limitarsi ad un esercizio retorico, si tratta invece di creare le condizioni perché questi si avvicinino all’attività sindacale. L’accesso al mercato del lavoro avviene oramai regolarmente con forme di lavoro flessibile. In molti casi il rapporto con il sindacato inizia allorquando il lavoro diventa stabile. Estendere la rappresentanza ai lavoratori flessibili e precari, includerli nelle RSU e nei comitati degli iscritti, è indubbiamente una delle condizioni essenziali per farli avvicinare prima all’attività sindacale. Nella nostra provincia siamo riusciti in alcune aziende virtuose ad allargare la rappresentanza ai lavoratori interinali e agli atipici. E’ necessario regolamentare questo istituto anche attraverso accordi con CISL e UIL e attraverso una gestione delle vertenze aziendali che veda una stretta collaborazione fra le Categorie e NidiL. Ma la cultura del Sindacato intesa come conquista di diritti collettivi comprende anche il diritto all’istruzione, a percorsi formativi che diano gli strumenti per un’affermazione nel mondo del lavoro. Per questo la CGIL deve tornare ad essere punto di riferimento anche per gli studenti. Come Organizzazione insediata nel territorio la CGIL può costituire uno spazio di aggregazione, un luogo per fare politica nelle scuole e nelle Università. Noi possiamo intercettare i ragazzi sensibili a questi temi mettendogli a disposizione, dandogli strumenti di analisi e aiutandoli a conoscere come funziona il lavoro mentre sono ancora studenti e consentirgli quindi di rivendicare un’istruzione che si adatti a quel mondo. Armando Magliotto, oltre ad essere stato un grande segretario della nostra Camera del Lavoro è stato anche uno dei fondatori del campus universitario di Savona. Il campus è cresciuto nel tempo e oggi è uno spazio dotato di una vita sociale fatta di studenti, insegnanti, ricercatori, oltre che di lavoratori di aziende che si sono insediate al suo interno o che operano a servizio delle Università. Noi rappresentiamo già molti dei lavoratori di quelle aziende, ma non dobbiamo accontentarci; quello è un mondo nel quale dobbiamo essere e dobbiamo poter riuscire a dialogare e coinvolgere anche gli studenti. Alla fine però, credo che per favorire l’avvicinamento dei giovani al Sindacato contino più gli atteggiamenti dei progetti. Esistono valori che nessun percorso formativo può trasmettere: tra questi la passione per l’attività sindacale e il senso di appartenenza all’Organizzazione. Laddove esistono delegati motivati e curiosi, e fortunatamente da noi avviene da molte parti, esistono anche giovani iscritti e simpatizzanti disponibili ad impegnarsi nel Sindacato. E’ da sempre la forma di reclutamento principale e continuerà ad esserlo anche in futuro.
La nostra Camera del Lavoro è sempre riuscita a favorire i ricambi generazionali e pur essendo formata da dirigenti con un’età media piuttosto bassa deve ancora una volta preparare il prossimo ricambio generazionale. In verità la nostra CdL è stata piuttosto all’avanguardia anche rispetto la promozione e valorizzazione dei quadri femminili. Attualmente nella Segreteria confederale la presenza femminile supera quella maschile. Tuttavia è necessario che continui il nostro impegno alla composizione degli organismi dirigenti e delle Segreterie con l’obiettivo di raggiungere la parità nei generi. Sappiamo come questo sia difficile in alcune categorie dove la percentuale di donne iscritte è molto inferiore alla metà. Eppure, rafforzare una regola che anche in questi casi imponga di avere un numero di rappresentanti femminili negli organismi che sia molto più alto della percentuale stessa di donne iscritte può servire anche a raggiungere l’obiettivo di sensibilizzare maggiormente la contrattazione rispetto alle politiche di genere. Il percorso però deve iniziare già dalla composizione delle liste per le RSU. Ovviamente la capacità di coinvolgere più donne nel nostro universo dipende fortemente da come riusciamo a superare le discriminazioni che ancora esistono rispetto all’organizzazione del lavoro, dagli strumenti offerti dallo stato sociale e dalle modalità di gestione del mercato del lavoro. Superare le discriminazioni significa far diventare le politiche di genere patrimonio di tutta la CGIL: non solo le dirigenti donna devono contrattare cose positive per le donne, è necessaria parità di sensibilità tra i dirigenti della CGIL siano essi uomini o donne. Ancora, e dico questo dal mio punto di vista maschile, credo che sia necessario individuare un luogo più adatto e meno chiuso di quanto non fossero i forum o i coordinamenti all’interno del quale discutere se e come possano essere recuperati tempi diversi per l’esercizio dell’attività sindacale e per favorire la permanenza delle donne nell’organizzazione. La discussione sulla centralità del territorio e sulla destinazione di risorse aggiuntive va anche affrontata in quest’ottica.
Infine i migranti Costruire una struttura di servizi in grado di rispondere alle esigenze dei migranti. Promuovere la conoscenza dei diritti dei migranti e dei servizi a cui possono accedere (anche attraverso la collaborazione e la realizzazione di convenzioni con associazioni presenti sul territorio). Promuovere l’organizzazione e la rappresentanza dei migranti all’interno dei luoghi di lavoro, non considerandoli categoria a parte ma mettendoli in condizione di crescere all’interno della categoria che rappresenta i lavoratori del settore in cui operano. Costruire un quadro dirigente di immigrati.
La CGIL deve immaginare modalità di rilancio delle attività di proselitismo attraverso politiche di reinsediamento nel territorio mirate soprattutto al coinvolgimento delle categorie appena citate. Credo però che prima di tutto sia necessario rielaborare e perché no, aggiornare l’idea che abbiamo del rapporto tra iscritto e Organizzazione. La CGIL, come qualsiasi altra organizzazione sindacale non può affidarsi all’immagine o all’elaborazione di messaggi accattivanti ma astratti per conquistare nuovi iscritti e trattenerli. Chi fa attività sindacale ha un rapporto costante con i lavoratori, un ruolo esercitato alla pari nei posti di lavoro tra chi rappresenta e chi è rappresentato e che si confronta con i problemi concreti quotidiani che nascono all’interno del posto di lavoro o, sempre più spesso, che nascono dentro il proprio contesto sociale e familiare e da lì vengono trasferiti nel luogo di lavoro. Spesso e volentieri il delegato sindacale o il responsabile della Lega dello SPI sono il primo soggetto che lavoratori e pensionati riescono ad intercettare per comunicare le proprie richieste, i disagi e le insoddisfazioni anche andando anche al di là della sfera di competenza del Sindacato. Chi si rivolge a noi però non si limita all’enunciazione del problema, chiede soprattutto delle risposte, e noi siamo misurati sulla base dei risultati che portiamo più che per la cultura che rappresentiamo. Per questo è sbagliato affermare che l’iscrizione alla CGIL sia sempre e soprattutto una scelta valoriale. E’ un’idea sbagliata che rischia di condizionarci negativamente nella scelta delle attività di proselitismo e delle politiche di reinsediamento da promuovere. L’iscrizione alla CGIL misura la validità delle nostre scelte politiche e della nostra azione quotidiana e per un lavoratore che non abbia solidi riferimenti culturali, la condivisione dei valori della CGIL è il punto d’arrivo, non il punto di partenza nel rapporto con l’organizzazione. La miglior forma di proselitismo quindi rimane la qualità della contrattazione nel posto di lavoro e l’efficienza dei servizi. Così si costruisce un rapporto di fiducia con i lavoratori che ci consente di spiegare loro l’importanza delle politiche confederali e della contrattazione nazionale fino allo sviluppo di un senso di appartenenza che può portare alla condivisione dei valori. Anche in questo caso, e alla fine si arriva sempre lì, le attività di proselitismo devono mirare non tanto a promuovere la CGIL in quanto tale ma a promuovere il merito delle proprie politiche, delle proprie proposte.
A fianco a questo tema ne esiste poi un altro di natura più tecnica che è quello riguardante la gestione dell’anagrafe degli iscritti. Noi abbiamo bisogno di gestire e il lavoro di analisi sulla quantità ma anche sulla qualità del tesseramento diventano propedeutici a questo lavoro ed essere utilizzate per realizzare progetti mirati a coinvolgere lavoratori e pensionati sul merito dei nostri programmi. Un ragionamento a parte merita poi un’altra questione, spesso citata anche se la soluzione è tecnica, richiede la gestione anagrafe iscritti rapporto Categorie SPI per comunicare i nomi dei lavoratori che vanno in pensione, ma anche una raccolta dati degli iscritti mirata a gestire le campagne dei servizi.
Solo dopo aver stabilito tutto ciò diventa importante sperimentare nuove modalità di comunicazione. Non solo pensando a mezzi e modi con i quali la CGIL esporta i propri messaggi verso l’esterno, ma anche a come si gestiscono la comunicazione e le relazioni interne a partire dal rapporto e dal rilancio di una stretta collaborazione con le associazioni che fanno parte della nostra orbita, l’Auser, il Sunia, la Federconsumatori sugli obiettivi che ci accomunano a loro.
La necessaria sfera di autonomia delle Associazioni infatti, non deve impedire di lavorare in sinergia per il raggiungimento di obiettivi comuni valorizzando le specifiche competenze e risorse. Non si può parlare di social housing e inserire il tema delle politiche abitative nelle piattaforme da proporre alle Amministrazioni locali senza coinvolgere il Sunia, né si può affrontare il tema delle politiche sociali, dalle proposte sull’invecchiamento attivo al ruolo del volontariato in un sistema a sussidiarietà orizzontale senza coinvolgere l’AUSER. Infine non si può affrontare il tema dei prezzi e delle tariffe e di quali siano le connotazioni territoriali dei problemi legati al costo della vita senza coinvolgere la Federconsumatori. Ovviamente, al di là delle convenzioni nazionali e delle proposte generali, in questo caso diventa ancora più importante pensare al modo per rafforzare questo rapporto a seconda delle diverse realtà locali. Intanto io credo che si debba affermare che a Savona dobbiamo costruire un rapporto più stretto con le Associazioni. Ho già citato prima come l’avvio della contrattazione territoriale possa costituire l’occasione per misurare nel merito nuove e più solide forme di collaborazione. Per fare questo è necessario innanzitutto riportare le Associazioni nella Camera del Lavoro e nelle sedi decentrate. A Savona abbiamo già la Federconsumatori e l’Auser, bisogna pensare al modo per avere anche presenze del SUNIA. Allo stesso modo bisogna che la Federconsumatori sia presente anche nelle sedi territoriali, a Cairo, ad Albenga e a Varazze. Inoltre, per la costruzione di politiche comuni e per l’istituzionalizzazione del rapporto dobbiamo pensare a cominciare a coinvolgere i responsabili delle Associazioni invitandoli alle riunioni di Segreteria che affrontano temi che li riguardano. A tal fine, potrebbe essere utile affidare una delega ad un membro della segreteria confederale per gestire il rapporto con le Associazioni e coordinare le attività comuni da svolgere anche sulla base di convenzioni nazionali da calare ed adattare alle esigenze locali. (penso ad esempio al protocollo SPI-AUSER).
Fa parte della comunicazione interna anche lo scambio di informazioni e la messa a fattor comune dei dati che riguardano le singole categorie. Va in questo senso il tentativo di costruire un archivio informatico che permette di monitorare l’attività svolta sulla contrattazione di secondo livello in un’ottica territoriale e non legata alla singola categoria. L’archivio è importante, bisogna che le categorie si mettano nell’ordine di idee che lo devono fare, problema culturale non organizzativo. In questo senso va anche il bilancio sociale. Sito e addetto stampa.
Questa sera, appena finiti i lavori della conferenza d’organizzazione, inaugureremo la nuova sede della Camera del Lavoro ampliata e ristrutturata. Con l’occasione, abbiamo deciso di allestire una specie di esposizione permanente, utilizzando le foto del nostro archivio per aiutare chi arriva ad orientarsi nella nostra storia oltre che nei nostri corridoi. Venerdì 29 poi, come tutti gli anni commemoreremo lo sciopero del 1° marzo 1944, indubbiamente l’episodio più tragico della storia del movimento operaio savonese. Un evento che ha causato la deportazione nei campi di sterminio e di lavoro di XX lavoratori alcuni dei quali giovanissimi di cui XX non sono mai più tornati. Ma un evento decisivo per l’esito della guerra di Resistenza proprio perché molti degli operai scampati ai rastrellamenti sono andati a rinforzare le fila partigiane contribuendo in maniera decisiva alla liberazione del paese. Più ci allontaniamo da quegli eventi e più è difficile tramandarne la memoria e il significato. Quest’anno per coinvolgere i giovani e i lavoratori abbiamo deciso di far allestire una rappresentazione teatrale che si terrà appunto venerdì alle 21 al Chiabrera che ha il compito di raccontare quegli eventi in maniera nuova. Lo abbiamo deciso perché purtroppo più passa il tempo più abbiamo difficoltà a trovare testimoni diretti di quei fatti. Anche questo è il segno che dobbiamo essere pronti ad adattarci costantemente ai cambiamenti del mondo in cui viviamo per continuare a svolgere il nostro ruolo. D’altronde, noi tutti nella CGIL siamo solo di passaggio e non possiamo far altro che lasciare qualche foto e qualche pensiero a qualcuno che domani possa usarli per costruire un sindacato adatto al suo di tempo.
Savona, 27 febbraio 2008